L’importanza di saper riconoscere i modelli di riferimento nelle serie tv:
un’abilità che scrittori e spettatori possono allenare.


“Mai stato il primo della classe, un ignorante fuoriclasse” cantava Salmo. Così anche io, ieri, prima di guardare “L’estate in cui imparammo a volare”, un po’ per desiderio ma anche un po’ per curiosità, consapevole che lo spoiler per me non è il peggiore dei mali (anzi), ho letto la recensione di questa serie su Rolling Stone ed ho trovato un titolo che mi ha fatto capire quanto ancora sia lunga la strada che può portare a una vera e propria “critica” in ambito di serie tv. Stiamo parlando dell’adattamento dell’omonimo romanzo di Kristin Hannah che è opera della sceneggiatrice Maggie Friedman e vede al centro la storia di un’amicizia femminile che si snoda nell’arco di trent’anni.

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Bene, il titolo era qualcosa tipo: “l’estate in cui imparammo a volare non ha imparato niente dalle serie che ha scopiazzato”. Mi chiedo: “Ma perché chi fa critica in ambito seriale crede di sapere tutto e poi non ha nemmeno la consapevolezza di essere più noioso di una soap opera della Procter & Gamble?” Il titolo si riferiva, infatti, secondo il giornalista, al senso d’ inadeguatezza che connoterebbe “L’estate in cui imparammo a volare” rispetto a “Lost” e “This is Us”, le due serie che costituirebbero secondo lui i due principali modelli d’ispirazione.


Forse è arrivato il momento che le redazioni dei giornali inizino a pretendere da parte dei giornalisti che se ne occupano, un linguaggio tecnico appropriato, oltre che una conoscenza specifica adeguata. Non lo dico solo perché “scopiazzare” rientra in un linguaggio da boomer ma perché, davvero, un termine del genere non è degno di un critico serio che voglia recensire una serie TV.

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Copiare, in serialità, è il principio cardine, la legge, è il dogma. Non è un male perché per realizzare una serie è proprio necessario ispirarsi in modo preciso a dei modelli di riferimento: è un’operazione necessaria già nella fase di stesura del “concept”, ovvero il modello ideologico, estetico narrativo che precede la scrittura dei soggetti e la produzione di una serie televisiva. Ma, ancora più importante, al fine di un’analisi efficace, è saper riconoscere questi modelli e individuarli: insomma, una cosa necessaria da fare e che, inoltre, può essere utile e divertente anche per lo spettatore.

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Fatto questo preambolo, una domanda mi è davvero rimasta impressa nella mente: “Lost” cosa c’entra con questa serie? Può bastare il meccanismo narrativo di rimbalzo delle scene, tra un piano temporale e l’altro, per riconoscere e individuare il modello al quale la serie si riferisce? Dunque se è vero che possono esserci anche diverse serie prese a modello per la creazione di una serie nuova, direi che per “L’estate in cui imparammo a volare”, inserire Lost tra queste, è di un’ingenuità imperdonabile. Oppure si tratta di una forma di presunzione intellettuale avvolta in un’aurea snob volta unicamente a fornire una tesi necessaria a smontare un prodotto: come per dire che se non si tratta di “Lost” non si può giocare con la non linearità temporale. Una cosa da “puristi purissimi”. Per quanto mi riguarda, non c’è niente di peggio.

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Ciò significherebbe che ogni qualvolta trovassimo, all’interno di una serie, questo espediente narrativo, automaticamente saremmo al cospetto di una serie che ha tra le sue reference “Lost”? Va chiarito poi che “Lost” è una serie arena driven (in cui la fonte dei conflitti è il luogo), mentre “l’estate in cui imparammo a volare” è una serie character driven (la fonte del conflitto è nel personaggio) e dubito, davvero, che questa serie possa essere presa in considerazione come modello di riferimento principale, sia per quanto riguarda la concezione della stessa serie, sia per quanto riguarda l’analisi a posteriori del prodotto finito, proprio perché credo che utilizzare questa tecnica narrativa sia stata per la Friedman l’unica strada percorribile ai fini dell’adattamento.

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Ma se confondere il pecorino con il parmigiano può essere grave, non conoscere la differenza tra il parmigiano reggiano e il grana padano lo è ancora di più, ed è ovvio che magari uno è simile all’altro, ma restano due cose profondamente diverse. Questo per dire che il confronto tra “L’estate in cui imparammo a volare” e “This is us”, fatto soprattutto mettendo sotto la lente d’ingrandimento il meccanismo ricattatorio che porta inevitabilmente all’emozione, non può che essere fuorviante, perché se in un caso il fare arrivare lo spettatore all’emozione è l’obiettivo principale degli autori (in quello risiede la forza del concept di This Is Us), nell’altro, invece, l’emozione è più una conseguenza inevitabile data dal genere drammatico. Non penso abbia senso un raffronto tra le intensità delle emozioni generate dalle due diverse serie, soprattutto all’interno di un’opera che secondo me gioca molto di più con i generi e con i toni di quello che ci si aspetterebbe.

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Fatte queste premesse, per me, Katerin Heigl e Sarah Chalke sono davvero molto brave a condurci nelle spirali di un racconto costruito su diversi piani temporali per portare in scena la storia di un’amicizia femminile nel corso degli anni, che mette al centro due donne sensibili e complesse che si supportano da sempre e che fronteggiano la vita in mille sfumature e modi diversi, ma sempre con un minimo comune denominatore: l’amore amicale che nutrono l’una per l’altra. La serie mette in campo diversi argomenti: uno, molto importante, è l’ambizione legata al tentativo di emergere nella società e per me è già un buon motivo per entrare in empatia con queste due donne: una conduttrice professionista e un’autrice tv disoccupata. Le vediamo prima ragazzine, negli anni ’70, poi giovani donne in carriera negli anni ’80 e infine donne mature e confuse al tempo presente della narrazione che, però, attenzione, è il 2003.


Perciò, a mio parere, dovendo individuare in modo nitido dei modelli di riferimento, quelli sono Sex and the City e Desperate Houswives. Possiamo anche essere d’accordo sul fatto che come serie possano essere entrambe superate, ma restano pur sempre dei modelli sacri nell’ambito della serialità. Il personaggio di Tully sembra ricalcare in pieno il modello Sex and the City: lei tra le due è quella glam, la ragazza patinata che ce l’ha fatta nonostante tutto, compresa una madre hippy e tossicodipendente. Kate invece è la donna in crisi, stretta nella morsa di una relazione matrimoniale destinata a finire, ma con desideri e fantasie sessuali tutt’altro che miti.

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L’avvalersi di questi modelli può nel risultato non essere una scelta convincente per chi non sa comprendere che si tratta in modo chiaro di una scelta, soprattutto per quel che riguarda la messa in scena, ma un dato emerge con chiarezza: guardando questa serie si ha la sensazione di essere davvero nei primi anni2000 e trovo molto interessante come anche il ritmo della narrazione e l’impatto estetico, oltre che quello narrativo, siano assolutamente in linea con i prodotti seriali di quegli anni. Questa operazione, per me, vale il prezzo del biglietto: sul divano, certo, con la copertina e un buon calice di vino.


Il sesso poi, qui, è narrato, sognato e spesso anche raccontato. È quel sesso che per prima Lena Dunham, in Girls, ha avuto il coraggio di traslare in qualcosa di più vero e reale, elevandosi dal suo stesso modello, Sex and The City, appunto, per portarlo sullo schermo semplicemente per quel che era, demistificandolo in ogni senso.

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Ma allora è possibile che nel 2022, nella chiave di una narrazione tendente al vintage, il ritorno a quel modo di affrontare la sessualità faccia parte di un insieme di scelte molto coraggiose e in linea con la tipologia e il genere della serie?


Credo di sì, come credo che tornare indietro per dimostrare coerenza e adeguatezza ai modelli di riferimento, sia una delle cose più coraggiose che si siano mai viste negli ultimi tempi.

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Il coraggio, poi, imperversa ovunque e arricchisce le vite delle due protagoniste, sempre pronte a sostenersi cercando di mantenersi salde e integre ad ogni sfida per diventare le donne che hanno scelto di essere sin da quella lontana estate del 1974 in cui impararono a volare, quando Kate e Tully, all’epoca quattordicenni, s’incontrano per la prima volta, mescolando le loro diversità: Kate è timida e introversa, rassegnata al suo posto nel gradino più basso della popolarità; Tully invece è bellissima, intelligente, ambiziosa ed esuberante. La prima ha una famiglia amorevole, forse un po’ soffocante, la seconda nasconde un doloroso segreto. Non potrebbero essere più diverse, eppure nel giro di poco diventano inseparabili, unite da un’amicizia che durerà per decenni. Fino a che Tully diventerà una star del giornalismo televisivo e Kate sposerà Johnny, ex corrispondente di guerra e, soprattutto, ex amante di Tully. Sullo sfondo di un America che cambia, dagli anni ’70 ai primi 2000, il legame tra Kate e Tully sarà messo a dura prova, ma le amiche affronteranno sempre tutto assieme, fino all’ultima sfida.

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Nelle diverse plot line, non ci sono, questo è vero, colpi di scena sensazionali, ma la serie non vive di questo. È fatta invece di tante piccole sfumature e microscopici dettagli che sono in grado di portare lo spettatore a commuoversi e a empatizzare con queste due amiche che portano avanti i propri obiettivi immerse in un quotidiano sempre pieno di vita e di momenti di riflessione, oltre che di attimi di puro dolore e sofferenza emotiva.


Le luci dei riflettori sono sempre pronte a spostarsi da una protagonista all’altra, grazie a una storia che non si dimentica di mettere in evidenza l’importanza, più che mai attuale, del racconto della verità in televisione, per lo più in riferimento agli scenari di guerra. Quest’ultimo aspetto trova corrispondenza soprattutto nel personaggio maschile principale, Johnny Ryan che, sulla soglia dei quaranta, cerca la rivalsa personale tornando a fare il corrispondente per l’Iraq, dopo anni di dedizione alla produzione televisiva, mettendo sé stesso in discussione e portando il suo matrimonio con Kate sull’orlo del baratro. La serie ne guadagna in spessore e l’esperimento narrativo di immergere la vita delle protagoniste in un preciso contesto storico e culturale in un’America in continuo cambiamento, è più che riuscito.

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È una storia in cui empatia, invidia, amore, rispetto si mescolano per dare vita al racconto di una semplice amicizia: una come tante, eppure strana, diversa, speciale, seguendo un concept che trovo unico nel suo genere: cosa succede se proviamo a unire “Sex and The City” a “Desperate Houswives”? E come mettiamo in scena una cosa del genere nel 2021?


Trovo che questa serie si avvalga di un concept innovativo che ha bisogno, semplicemente, di diversi piani temporali nella necessità di narrare una storia che dura trent’anni, e che prova anche a seguire, in modo sperimentale, dei modelli drammaturgici differenti rispetto al classico modello del viaggio dell’eroe. Ciò per un insieme di scelte che, come le due protagoniste, hanno in sé una certa audacia. Ma mi rendo conto che non sia una cosa semplice da capire “per chi voleva fare il batterista e suonare in un concerto Rock” o “per chi pensa sia un lavoro scrivere su Rolling Stone.” Già, anche perché “non è un lavoro, è uno stile di vita”, direbbe Tully sfrecciando su una cabriolet.