Luna Park, serie TV Netflix prodotta da Fandango
A spiccare, tra le serie italiane del catalogo Netflix c’è “Luna Park” che ha il grande merito di portare in scena una buona storia calata nella magia del mondo delle giostre in un’epoca post bellica che, di rado, all’interno dei paradigmi seriali, abbiamo visto declinata così e sotto questo tipo di lenti: quelle della magia e del mistero.
Nell’analizzare questa serie, il primo punto che vorrei sottolineare è proprio la costruzione del mondo narrativo in cui i personaggi sono immersi in modo puntuale, in una tensione costante di racconto che lascia spesso con il fiato sospeso e che di rado tradisce quest’aspettativa.
Va detto che scrivere di mondi magici e affascinanti può sembrare facile ma non è per niente così, perché per quanto questi ultimi siano presenti nell’immaginario collettivo, in realtà, per essere portati alla luce in modo coerente, necessitano di una conoscenza specifica.
Per cui, trattandosi di realtà complesse che al loro interno hanno precisi codici, gerarchie e strutture ben definite, occorre scrivere con assoluto rispetto e una certa fedeltà al reale.
È necessaria quindi una corposa operazione di studio in fase di sviluppo che, ça va sans dire, qui è stata compiuta al meglio e che ha consentito alla sceneggiatrice Isabella Aguilar di non cedere mai il passo al melenso (per questo mi è piaciuta così tanto), pur considerando che la serie contiene al suo interno molti elementi romantici.
Siamo a Roma, negli anni dopo la seconda guerra mondiale.
Un periodo di trasformazione e ripresa a seguito di una grande sofferenza, dove la necessità di un ritorno alla normalità, sia per chi faceva della risata e del divertimento il proprio business sia per il pubblico
cui questa attività era rivolta, era molto sentita.
Si tratta di un periodo che ricorda molto quello che abbiamo
appena vissuto e che stiamo ancora vivendo.
Questo per me è il quid plus della serie che, in virtù di ciò, riesce, tra i diversi argomenti messi in campo, anche a raccontare dell’importanza dei ludici aspetti della vita quotidiana, senza
diventare uno stucchevole disclaimer, ma restando un’opera
fedele al periodo storico narrato.
Inoltre c’è una storia che affascina, intriga e che cresce puntata dopo puntata, senza mai annoiare. Tutto ciò grazie anche a una plot line principale immersa nel giallo.
Ma di cosa parla la serie?
Dal mio punto di vista, direi che l’area tematica, nonché la matrice del racconto, è quella che riguarda la sfera dell’appartenenza, aspetto che corre contemporaneamente su diverse linee guida che a un certo punto convergono perfettamente pur restando su livelli differenti di racconto.
Livelli che talvolta si accavallano con puro equilibrio: al centro, oltre allo sviluppo di trame secondarie avvincenti, c’è un mistero, una vera e propria detection in cui lo spettatore è ingaggiato assieme ai protagonisti per andare alla ricerca di una verità tenuta nascosta per anni e che vede la luce grazie a un incontro voluto dal destino: quello tra Nora, giovane giostraia, e Rosa, ragazza della Roma bene – molto diversa dalla protagonista – che non ha mai smesso di sperare nel fatto che la sorella gemella sia viva.
Un incontro che porta due famiglie agli antipodi tra loro a guardarsi indietro, comprendendo il passato per fare chiarezza sul proprio futuro.
Ma per immergersi nelle profondità date da un tema sempre interessante non solo per lo spettacolo ma anche per chi scrive, oltre a questi aspetti si aggiungono in modo magistrale diversi elementi: uno tra tutti è quello della scoperta del primo grande amore con tutto il conflitto che si genera tra la generazione dei padri e quella dei figli, argomenti di shackespeariana memoria messi in scena con grande cura.
I dialoghi esaltano e mettono in luce una riflessione sulla libertà attraverso un gioco di sovrapposizioni che in Italia sono rarissime e di cui ho preso appunti, segnandomi anche qualche perla di saggezza, come nel quinto episodio:
Antonio - padre di Nora “Io vorrei che tu fossi più libera.” Nora “Più di così?” Antonio “Chi è libero non scappa.”
La frase sottolinea il momento in cui il padre di Nora sente la figlia molto lontana da lui. Lo spettatore sa che lei si sta allontanando non soltanto perché si sta innamorando – come crede il padre – ma perché è vicinissima alla verità che ha sempre intuito e perciò, di fatto, lontanissima dalla famiglia che l’ha cresciuta, anche se Nora, dentro di sé sa benissimo da che parte stare.
Infatti per Nora il bisogno di conoscere è vitale per potersi sentire libera. La rappresentazione di questo bisogno – sullo schermo – è un aspetto peculiare che la rende uno dei migliori personaggi della serialità italiana.
L’emersione dei dritti e dei gaggi, vecchi archetipi presenti ancora oggi nel mondo del circo e in quello delle giostre, l’essere nomadi rispetto ai vincoli imposti dalle convenzioni sociali, l’amore e le decisioni prese di conseguenza ad esso, oltre che la presenza di inaspettati shapeshifter (personaggi che sfuggono a una facile catalogazione – mutaforma) fanno di Luna Park una serie con una prima stagione da non perdere, ricca di personaggi avvincenti e attori brillanti, sospesi su una giostra che sembra non fermarsi mai.